Preziosa testimonianza di un antico modo di rapportarsi alla terra, gli Orti Catambrani devono la loro singolare conformazione ad un disastro naturale ed al successivo ingegno che uomini e donne adoperarono per fronteggiarlo. Estremo temporale imprescindibile è il 1765, percepito dalla comunità roccolana come un disastroso anno zero. La frana che colpì il paese nella simbolica giornata di San Giovanni, il 24 giugno, provocò la morte di circa 500 abitanti su 2000 e trascinò a valle un’ingente quantità di terra, enormi massi e detriti, sconquassando quasi interamente l’assetto urbano e cancellando secoli di scelte, storie, abitudini. Negli anni che seguirono, la comunità frantumata si riappropriò a poco a poco del paesaggio trasfigurato: alcuni abitanti accettarono la decisione ufficiale, proposta già nel 1765 dall’ingegner Michele Clerici, di ricostruire l’abitato a valle, nell’attuale frazione Terranova; alcuni si sparsero nei campi coltivati; molti altri si adoperarono per rimanere nelle vicinanze del paese scomparso, creando così una sorta di continuità materiale e simbolica con quanto avevano perduto. Tra questi ultimi ci furono delle famiglie, in particolare quella degli Aceto, che intuirono la grande potenzialità del nuovo pendio formatosi a seguito del dissesto idrogeologico. Spinti dalla ricerca di campi coltivabili nelle vicinanze delle nuove abitazioni, iniziarono un’opera di bonifica e spietramento dell’area posta in corrispondenza della sorgente di San Rocco. A poco a poco presero vita dei veri e propri muretti contenitivi, costruiti con le rocce ricavate dal terreno e, di volta in volta, faticosamente modellate.
In questo modo la millenaria tecnica del muretto a secco fece visibilmente il suo ingresso nel paesaggio di Roccamontepiano, espandendosi negli anni seguenti dall’area degli Orti Catambrani al resto dell’assetto urbano, lasciando tracce concrete e durature che ancora oggi identificano inequivocabilmente la zona. Questo nuovo sistema permise di addolcire la forte pendenza, di assicurarsi un solido argine contro ulteriori scivolamenti e di avere a disposizione tanti piccoli terrazzi messi a coltura con l’ausilio di suolo fertile raccolto nei boschi circostanti. La stessa acqua che da millenni è oggetto, nella grotta di San Rocco, di abluzioni e strofinamenti rituali fu da subito sfruttata dai contadini per scopi irrigui. Essi realizzarono un ingegnoso sistema di irrigazione a cascata, con l’aiuto di piccole vasche di raccolta (anch’esse costruite in pietra) e opere di incanalamento che permisero il lento e controllato fluire dell’acqua da un gradone a quello immediatamente inferiore.

Data la grande disponibilità di suolo fertile e di acqua, la famiglia dei Catambrani ebbe modo di specializzarsi nel settore orticolo e di diventare punto di riferimento alimentare per l’intera popolazione. Inoltre, considerando che intere generazioni di roccolani si trovarono improvvisamente prive di luoghi identitari, possiamo sicuramente affermare che gli Orti Catambrani divennero uno degli elementi attorno al quale riconoscersi comunità. Per circa duecento anni non ci fu abitante di Rocca che non acquistò i rigogliosi ortaggi e non mancò nemmeno chi, allo stesso scopo, arrivava dai paesi limitrofi. Qualora non ci fosse stato denaro a disposizione, poteva accadere che questi venissero scambiati con altri beni utili, tanto che rimane iconica la frase damme n’ov d’nzalat (dammi in insalata il corrispettivo del valore di un uovo). A tal proposito, la grande festa di San Rocco rappresentava il massimo momento di scambio e condivisione, un’occasione di crescita economica e culturale: i prodotti della terra e soprattutto il vino, con tutto il suo portato simbolico, riuscivano a raggiungere in una sola giornata miriadi di pellegrini.
La famiglia dei Catambrani si specializzò inoltre nella conservazione e nella cura dei semi, tanto che l’area orticola assunse anche il fondamentale ruolo di vivaio per l’intera comunità. Le caratteristiche role (semenzai), che necessitavano il suolo più fertile possibile, sorgevano accanto alla fossa del letame, unico prezioso concime disponibile. L’impianto dei terrazzi era policolturale. Al limite di ogni appezzamento sorgeva una striscia di vite sorretta ad alberello, i più anziani dicono si trattasse di Verdacchione (Montonico). Nella memoria comune sono rimaste alcune colture specifiche come le rafanille (il ravanello, Raphanus sativus), la rapa (Brassica rapa), la mmidie (indivia, Cichorium endivia). Numerose erano le varietà di fagioli: a pisello e a corallo (Phaseulus Vulgaris), a fava con i caratteristici fiori scarlatti (Phaseulus Coccineus). Particolarmente interessante risulta la presenza storica de lu cerrefune (il cerfoglio, Anthriscus cerefolium), un tempo utilizzato come erba aromatica o per le sue proprietà lenitive rispetto ai dolori mestruali, oggi quasi del tutto dimenticato. Nelle zone meno coltivate cresceva spontaneo il papavero da oppio (Papaver somniferum), le cui grosse capsule venivano largamente utilizzate nella preparazione di decotti con funzione sedativa. Inoltre, nelle intersezioni umide tra le pietre dei muretti era frequente la presenza spontanea del prezzemolo e del capelvenere.

La toponomastica tra storia e leggenda

Il cognome Aceto, che nei decenni successivi alla catastrofe sembra legarsi maggiormente al nuovo paesaggio orticolo, appare per la prima volta nei documenti di Roccamontepiano attorno al 1741. Nelle rivele del Catasto Onciario, Giulio Aceti dichiara di essersi trasferito da poco da Villa San Germano (denominazione che fino al 1863 ha identificato l’attuale città di Cassino) e di vivere nel Rione della Piazza con moglie e figli.
Egli conclude la dichiarazione con la firma, piuttosto che col consueto segno di croce. Come spesso accade, la tradizione orale integra le informazioni ufficiali contenute negli archivi e ci restituisce il ricordo incerto di un uomo scaltro che per amore di una donna si trasferì a Roccamontepiano, abbandonando la vita ecclesiastica condotta nell’alveo della comunità monastica cassinese (verosimilmente nella vicina Abbazia di San Liberatore a Maiella). Sono state tramandate oralmente anche varie storie sull’origine del soprannome Catambrene, difficilmente verificabili storicamente. Qualcuno lo attribuisce alla pianta di Catambra, ma se accettiamo l’ipotesi che i lavori di bonifica presero avvio quando Giulio Aceti era ancora vivente, allora potrebbe essere vero che egli, durante quei duri mesi di lavoro, rispondeva scherzoso al consueto saluto dei compaesani Addò sci state ùoje? (dove sei stato oggi?) con il termine greco katà (“giù, sotto”) e brani (le strisce di terreno che costituiscono il pendio terrazzato). La risposta reiterata si trasformò velocemente, nel dialetto locale, nell’appellativo Catambrene e ancora oggi che la famiglia si è divisa in rami diversi e lontani tra loro, l’antico soprannome ne identifica una radice comune. Esso passò presto ad identificare anche l’intera zona degli orti terrazzati.

La vecchia Fontana di San Rocco agli inizi del XX sec.
ubicata nei pressi della sorgente di San Rocco e dell’omonima grotta. L’acqua sacra che da essa sgorga viene utilizzata per irrigare gli orti terrazzati di Roccamontepiano.

Caratteristici terrazzi orticoli
realizzati con muretti a secco, scalette per il passaggio pedonale da un terrazzo all’altro e canali per il deflusso idrico. Cunette e solchi facilitano il cammino e la discesa dell’acqua.

Gli Orti Catambrani

Il biotipo “Verdacchiona” è l’espressione dell’interazione tra il genotipo del vitigno a bacca bianca “Montonico” con lo specifico terroir del versante orientale del massiccio della Maiella. Verdacchiona è da considerarsi a tutti gli effetti un biotipo di Montonico conosciuto in Abruzzo anche come Chiapparone o Ciapparuto. A Roccamontepiano viticoltori custodi coltivano questo vitigno in piccoli e antichi vigneti dove alcuni esemplari sono maritati da un centinaio di anni a alberi (olmi, querce).